Devo dire che fa un certo effetto leggere i resoconti di quelle settimane così difficili, così inaspettate, così complesse per tutti, e mi fa ancora più effetto pensare che le condivide chi ha per ruolo una responsabilità verso le persone che lavorano all’interno delle grandi organizzazioni. Si ritorna con la mente, anche se per un momento, a quel periodo, al telefono che squilla, all’emergenza che si affaccia improvvisa all’orizzonte, e al management dell’azienda che si riunisce per un comitato di crisi, il primo di una lunga serie, per definire le linee guida e mettere in sicurezza i dipendenti dell’azienda, con la funzione HR in prima linea nel coordinamento dell’emergenza.

Sono resoconti che lasciano emergere innanzitutto, com’è logico e doveroso, le preoccupazioni relative alla salute dei dipendenti, alle procedure da adottare, ai comunicati da emettere per condividere le azioni intraprese. Ma è illuminante e rassicurante il fatto che, subito dopo, venga dato ampio spazio a tutt’altro tipo di preoccupazioni: ecco la necessità di dare un giusto riconoscimento all’impatto psicologico ed emotivo che la pandemia ha determinato sulle persone, un’attenzione a “Cosa hanno provato e sentito i colleghi, come hanno affrontato un’esperienza di vita mai vissuta prima”, una cura per quel “senso di comunità e di vicinanza” senza il quale non potrebbe esistere e permanere nel tempo alcuna organizzazione fatta di persone. Ed è proprio assumendo questo punto di vista che si può rilevare come la maggior parte dei dipendenti non veda l’ora di rientrare in ufficio, seppure parzialmente, per riconquistare quella dimensione fisica del rapporto, quella possibilità di un confronto personale e coinvolgente, che così importante è anche per la nostra sfera lavorativa.

Una prima considerazione che dunque scaturisce con chiarezza dalle interviste qui proposte è la riproposizione di un ruolo manageriale molto più complesso e sfaccettato di quanto non si tendesse a pensare in tempi di pre-pandemia. Un ruolo che unisce ai soliti aspetti dell’efficienza, dell’orientamento al risultato, del problem solving e della guida del team, una spiccata sensibilità per la gestione delle dinamiche emotive e sociali implicate nella vita lavorativa dei collaboratori.

Un manager sempre più coach, sempre più esperto di dinamiche comunicative, ma anche connotato più semplicemente da uno stile di relazione caldo ed empatico, dove la fiducia e la gestione del feedback rappresentano ingredienti essenziali.

C’era forse bisogno di un evento così drammatico e pervasivo per consentirci di ritornare al basic e poter riaffermare il semplice concetto che “avere dipendenti felici, collaboratori felici” costituisce un asset strategico, o almeno un valore aggiunto di grande importanza. E ritroviamo nelle interviste chiari indizi anche di ciò che ci si attende dall’HR del futuro: una costante propensione all’ascolto dell’organizzazione, l’essere a disposizione di tutti, al fine di porre sempre più attenzione anche agli aspetti valoriali delle persone, tanto che “Ho cambiato modo di parlare, per essere più vicina alle persone. Nel mio linguaggio ci sono oggi più termini legati al mondo soft, come empatia, relazione, comprensione, trasparenza”.

Una seconda considerazione riguarda la capacità di fare innovazione e di guardare al futuro sempre, anche in tempi non sospetti, anticipando gli eventi, affrontando gli investimenti necessari, facendosi trovare pronti rispetto alle sfide che il presente e il futuro non mancano e non mancheranno di proporci.

Le aziende lungimiranti, quelle che hanno saputo prevenire i tempi, sia da un punto di vista tecnologico che da quello dell’organizzazione del lavoro, si sono avvantaggiate di fronte a un evento imprevisto, si sono trovate un po’ meno impreparate, pur nella difficoltà e nella complessità del momento. 

C’è poi la chiara consapevolezza che il vero smartworking ha ancora da venire, e che ciò che abbiamo visto negli ultimi mesi è stato per lo più un modo di far fronte alla situazione di emergenza, mettendo in grado bene o male le persone di lavorare da casa propria, in attesa di tempi migliori. C’è dunque ancora molto da fare, in vista del “vero” smartworking, che è “fiducia, imprenditorialità diffusa, condivisione degli obiettivi”, con un chiaro diritto alla disconnessione, e con l’individuazione e l’assicurazione da parte dell’organizzazione di un “sano equilibrio tra vita e lavoro”

Mi sembra infine giusta e condivisibile l’osservazione che non stiamo affrontando semplicemente un cambiamento. Siamo, invece, completamente immersi in un periodo fluido, dove mancano quasi sempre punti di riferimento chiari e ben definiti. Entra a questo proposito in gioco il tema della digitalizzazione, che largo spazio trova nelle parole di tutti gli intervistati. Nessun dubbio circa il ruolo imprescindibile che il digitale svolgerà sempre più nel futuro delle nostre aziende e nel lavoro dei nostri collaboratori. La preoccupazione che sembra emergere in filigrana è forse relativa alla nostra capacità di “pilotare” l’evoluzione digitale, e di non subirla passivamente. Diventa imprescindibile da questo punto di vista un forte ruolo di leadership da parte della funzione HR, con l’obiettivo di tracciare il confine (sempre in movimento) fra contributo dell’uomo e intervento delle macchine, e per accompagnare l’organizzazione verso il futuro, aiutando ogni dipendente a intravvedere la direzione e ad acquisire il mindset necessario per cavalcare con serenità e sufficiente soddisfazione l’onda, senza lasciarsene travolgere. Ma resta anche l’importante compito di rivendicare il ruolo imprescindibile che le persone conserveranno anche per il futuro, perché “Tutto quello che il computer non sa fare e tradurre lo completeremo noi umani”.

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