Carlo Vanin ha iniziato il suo percorso professionale in ABB come HR Plant Manager, dove è rimasto per circa 8 anni. Successivamente, è entrato a far parte di Carel Industries, dove ora ricopre il ruolo di Group Human Resources Director.
Qual è stato il vostro approccio allo smartworking nel periodo pre-pandemico e come questo è poi tornato utile con il lockdown?
Nel 2018, già ben prima della pandemia, avevamo avviato un progetto della durata di un anno che avrebbe dovuto portare l’80% della popolazione impiegatizia a lavorare in modalità smart per almeno una volta a settimana. Volevamo valutare il livello di apprezzamento, il loro adattamento alla modalità dello smartworking e, infine, volevamo anche preparare la struttura, in particolare i responsabili di funzione, a un rapporto di lavoro più a distanza, maggiormente basato sulla fiducia. Col diffondersi del Covid-19, siamo stati costretti a portare tutta la popolazione impiegatizia a lavorare da remoto, non per un giorno a settimana, bensì per tutta la week. Ci sono state diverse difficoltà, tuttavia siamo stati anche fortunati perché i nostri dipendenti disponevano già di pc portatili. In azienda, la vera difficoltà, però, è stata ridefinire il lavoro quotidiano per progetto che avviene all’interno di team, in lavoro da remoto; è stato tutt’altro che semplice.
La vostra grande ricchezza è avere dei team interfunzionali: come siete riusciti a continuare a fertilizzarvi vicendevolmente da remoto?
In primis, abbiamo messo in campo delle nuove pratiche dal punto di vista della relazione e della comunicazione da remoto, molto diversa da quella che si potrebbe avere in presenza; le meta-competenze sono completamente differenti. Una cosa che abbiamo cercato di dare da subito alle persone sono stati i giusti strumenti per lavorare da casa e anche degli interventi formativi che li aiutassero a muoversi in un contesto diverso da quello a cui erano abituati. Abbiamo poi cercato gli strumenti informatici che avrebbero potuto dare maggior valore al lavoro in team. Per esempio, prima della pandemia usavamo dei tabelloni per seguire l’andamento di un progetto, in piena modalità lean. Se le persone, però, non sono fisicamente presenti, questi strumenti perdono di valore. Ne abbiamo, quindi, cercati di nuovi maggiormente adatti alle attuali condizioni lavorative. Ad esempio stiamo sperimentando l’utilizzo di Mural, un tool che permette a più persone di lavorare in parallelo su uno stesso documento, riducendo così gli effetti negativi del lavoro a distanza.
Quali sono stati i cambiamenti che avete vissuto in questo periodo pandemico?
Abbiamo colto l’occasione della pandemia per lanciare il progetto di ridefinizione della nostra employer brand proposition: abbiamo costruito con il contributo di tutti un vero e proprio “Culture Manifesto”, attraverso cui abbiamo potuto ridefinire il sistema di valori/principi a cui l‘azienda si ispira e a cui stiamo lavorando per collegare i comportamenti. È un progetto enorme perché riguarda tutto il Gruppo, per un totale di circa duemila persone nelle diverse sedi mondo e che ci porterà a rivedere il processo di appraisal, ovvero di valutazione delle persone, di remunerazione e di incentivazione dei nostri impiegati.
Quali sono le competenze e i comportamenti che potranno fare la differenza per te, in qualità di HR Director, ma anche per i manager dell’azienda?
Noi stiamo cercando di impostare la Carel del futuro su due assi: Flexibility e Accountability. Il tema della flessibilità vuole essere un’evoluzione dello smartworking che offre a ognuno la possibilità di lavorare in tempi e luoghi liberi, dentro un frame definito, gestendo il proprio tempo di lavoro in maniera autonoma. Abbiamo cercato di evolvere ancora di più concedendo alle persone la facoltà di gestirsi come preferiscono: quando andare in ufficio, quando restare a casa a lavorare, quali orari fare. Questa flessibilità è stata oggetto di una survey da cui è emerso che la possibilità di disporre in maniera autonoma e flessibile del proprio tempo è il valore più grande. Per quanto riguarda, invece, l’Accountability s’intende che il lavoratore, pur avendo flessibilità e autonomia, ha al contempo anche la responsabilità di portare risultati e rispettare scadenze e standard di qualità. La responsabilità vuole essere, quindi, una delega fiduciaria.
Come sono cambiati i comportamenti e di conseguenza la leadership?
Abbiamo sentito la necessità di creare un decalogo che supportasse le persone nella gestione libera del proprio tempo, che disincentivasse le riunioni in orario di pranzo o le email serali.
Lo abbiamo fatto pensando al principio secondo cui lavorando quantitativamente di più si vada inevitabilmente a impattare negativamente sulla qualità, oltre che sul work life balance. Questi atteggiamenti inoltre sembrano minare la leadership stessa, perché il responsabile viene percepito come invadente e le sue richieste fuori orario sembrano sottendere un’aspettativa di risposta rapida o urgente da parte del collaboratore. Il decalogo che abbiamo redatto svincola le persone dal rispondere fuori orario favorendo quindi un miglior bilanciamento vita-lavoro.
Quanto la cultura del territorio influenza e può influenzare le vostre decisioni strategiche?
Chiaramente le origini influenzano molto l’approccio verso l’adozione di un particolare modello o sistemi diversi. Io credo che sia importante guardare sempre fuori: imparare, conoscere, informarsi e fare attività di benchmarking. È importante avere la capacità di mantenere anche la propria corporate identity, essere quindi in grado di mantenere un’identità fortemente condizionata da chi ha fondato l’azienda e dal contesto in cui si inserisce. In Carel, abbiamo alcuni senior manager con più di 60 anni e che sono qui dalle origini. Il patrimonio, in termini di identità, non deve andare disperso: tutto ciò che costituisce evoluzione e cambiamento non deve per forza andare ad escludere il core dell’azienda o chi l’azienda ha contribuito a costruirla.
Come avete trasformato il processo di recruiting in questa pandemia e come state gestendo il processo di coinvolgimento delle nuove generazioni?
Per il processo di recruiting, tra le tante cose che abbiamo sperimentato, abbiamo introdotto un sistema avente una piattaforma che consente, attraverso un motore di ricerca, di postare le nostre ricerche e ricevere un numero altissimo di candidature su cui applicare poi alcuni filtri e raccogliere le informazioni necessarie, non solo dal curriculum ma anche mediante delle specifiche domande. Dopodiché, oggi il 90% del processo di recruiting avviene a distanza. Tuttavia, prima di concludere il processo chiediamo sempre un incontro in presenza in azienda: vogliamo che la persona veda gli spazi e conosca i propri futuri interlocutori come il relativo responsabile. Un esempio di tecnologia che abbiamo adoperato è proprio in-recruiting.
Il tema dell’onboarding, invece, è un tema che dobbiamo ancora approfondire: da un certo punto di vista quello che avviene a distanza rallenta l’introduzione del nuovo assunto nel contesto di lavoro e nel team stesso. Anche qui abbiamo introdotto una nuova piattaforma su cui vi sono una serie di contenuti legati all’azienda, un kit di consigli su come muoversi e come interagire nel nuovo contesto di lavoro. Si tratta di corsi che permettono un migliore inserimento per i nuovi assunti. Una volta li facevamo in presenza, oggi ovviamente vengono fatti online e, secondo me, andrebbero migliorati poiché in modalità digitale hanno un impatto minore e sicuramente sarà necessario renderli più accattivanti.