Come hai vissuto il lockdown nel ruolo di Direttore HR?
È sicuramente una situazione completamente nuova, mai sperimentato qualcosa di simile, e ad un certo punto ho avuto la sensazione che il mondo si fosse fermato.
Come gruppo, non abbiamo mai cessato la nostra attività produttiva, anzi, abbiamo lavorato più di prima. Da HR l’ho vissuta con una grande sensazione di voler fare qualcosa, dire e comunicare. In più ho sentito che le persone si sono rivolte a noi, HR e leadership team, per capire che cosa potessero fare.
Ho ancora bene in mente l’immagine del decreto del 1° marzo e del tamtam mediatico che si era generato. È stato difficile comunicare, perché il bisogno delle persone era capire come fare e cosa fare dalla sera per la mattina.
Che cosa vi hanno chiesto le persone?
Siamo stati inondati di domande a cui spesso non avevamo risposta certa. Abbiamo usato le regole che avevamo, e tanto buon senso – che pensavamo fosse la migliore guida da seguire, e ancora oggi lo pensiamo. I due principali bisogni emersi sono stati, in ogni caso, la salute e la sicurezza sul lavoro. Ho avuto l’impressione di ritornare alla base della piramide di Maslow.
Nella nostra azienda la gente ha temuto per il futuro e per il proprio posto di lavoro, anche se siamo un’azienda molto solida: in ogni caso alcuni dei progetti in cantiere sono stati necessariamente congelati, anche per il fatto che era tutto completamente fermo, dentro e fuori dall’Italia.
Quali strategie organizzative avete attuato?
Il nostro organico è composto prevalentemente da figure impiegatizie, a cui si aggiunge anche una presenza capillare di figure più operative sul territorio. In poco tempo abbiamo organizzato l’attività da remoto per tutti quelli che potevamo, anche se non avevamo ancora una policy codificata. Nella cultura dell’azienda non era ancora del tutto sdoganato il lavoro da remoto, molti colleghi non avevano ancora la strumentazione adeguata, eppure abbiamo fatto un salto da 0 giorni a 5 giorni di lavoro da casa: abbiamo investito sulla strumentazione informatica, abbiamo potenziato la rete, abbiamo formato le persone su come si lavora da remoto, dando però comunque la possibilità a chi se la sentiva di frequentare, nel rispetto del protocollo condiviso con la nostra RSU locali aziendali o le filiali operative al servizio dei clienti.
Le persone si sono abituate velocemente a questa nuova situazione. Viceversa, avevamo comunque una serie di collaboratori, che lavoravano in produzione o all’assistenza clienti o alle consegne, che dovevano necessariamente accedere alla sede di lavoro e per i quali il bisogno primario è stato ed è la sicurezza e la tutela della salute. Abbiamo mobilitato tutti i canali a nostra disposizione – a marzo non c’erano nemmeno mascherine reperibili! – e i nostri dipendenti sono stati encomiabili, perché nessuno si è sottratto. Il senso di utilità del lavoro che si svolge, per chi lavora in sanità, è innato.
A livello di organizzazione, abbiamo istituito subito un comitato di crisi con il top management e abbiamo lavorato giorno e notte per garantire la sicurezza in tutta Europa.
Come avete gestito l’emergenza come funzione HR anche nelle sedi estere?
Intanto abbiamo mobilitato tutte le nostre sedi, creando anche un comitato di crisi estero: abbiamo cominciato a raccogliere le esperienze paese per paese, a dare regole su mascherine e distanziamento fisico, a far capire che bisognava fin da subito prendere delle misure di emergenza forti, ma non c’era una comprensione di fondo di quello che stava accadendo, perché i colleghi erano, rispetto a noi, 15 giorni indietro nel numero di contagi.
Abbiamo lavorato tanto e incessantemente e ci siamo anche presi la responsabilità di dare consigli su qualcosa che non avevamo mai vissuto, come per esempio le procedure per sanificare i van, per le bombole, e garantire le consegne in ospedale e a domicilio nel miglior modo possibile. Tutti apprendimenti frutto dell’esperienza di tutti i giorni.
Quali azioni avete messo in campo?
Abbiamo lavorato tanto sulla comunicazione e sull’ascolto, sfruttando tutti i canali disponibili. Abbiamo lavorato e stiamo lavorando sull’ulteriore digitalizzazione dei processi. Abbiamo poi lavorato molto sulle competenze, come la gestione dei team da remoto, la gestione della delega e degli obiettivi, tutti temi che sono per noi elementi di un salto culturale che stiamo continuando a fare.
Come è cambiato il lavoro della funzione HR? E come è cambiato il tuo lavoro?
Lato HR i processi aziendali non si sono mai fermati: abbiamo rivisto il processo di apprendimento e la formazione informale. Stiamo riprogettando tutti i processi in forma blended, compresa la selezione: ora stiamo assumendo via videocall, ma spero che presto si possa trovare un giusto mix tra gli approcci.
Dal punto di vista dell’efficienza, il lavoro da remoto offre grandi opportunità di efficienza sui tempi di spostamento e di viaggio: pensando alle trasferte, trovo difficile che a breve si tornerà a viaggiare allo stesso livello di prima della pandemia. Grazie a questa esperienza abbiamo imparato a collaborare anche da remoto e oggi paradossalmente abbiamo rapporto più stretto con i colleghi esteri, perché la tecnologia ha accorciato le distanze, facilitando le occasioni di incontro (virtuale). Per il futuro questa modalità di gestione inciderà non poco sulle dinamiche collaborative.
Come cambierà il tuo lavoro e il lavoro della funzione HR nel prossimo futuro?
Credo che effettivamente questa sia stata per certi versi una grande opportunità: ci stiamo trovando a gestire una serie di problematiche particolarmente serie, come la salute dei nostri dipendenti, anche se non si tratta forse delle cose che ci piacciono di più come HR. Siamo ancora nel “fire figthing”, cercando di rispondere nel più breve tempo possibile agli input che riceviamo.
Penso che tutto ciò rappresenti anche un modo per far capire che sulla funzione HR si può contare, e questo è un credito che ci portiamo a casa e che dobbiamo gestire bene: saremo sempre più centrali nel di supporto al cambiamento e alla trasformazione dell’azienda. Anche le persone cambieranno il modo di lavorare, e noi dovremo essere in grado di guidare i manager a lavorare in modo differente. Ci saranno persone e generazioni in azienda che forse lo auspicano, altri invece che oggettivamente faranno più fatica… il nostro ruolo potrà essere supportivo, di guida e di aiuto nell’identificare il giusto modo di lavorare senza perdere il senso di comunità e di appartenenza tipico di un sistema sociale come l’azienda. Come HR ci sentiamo tenutari anche di alcuni valori, quali quelli della condivisione, dell’identificazione con l’azienda, dell’essere un gruppo di persone e amici oltre che colleghi, che nascono e si sviluppano principalmente con un rapporto di fiducia non mediato dalla tecnologia, ma dallo scambio fisico.
Come immagini il futuro del mondo del lavoro?
Ho paura che questa situazione possa portarci a sentirci più dei liberi professionisti che dei dipendenti: a tal proposito anche nel comitato di Federchimica, di cui sono parte, si sta ragionando su un nuovo modo di lavorare, che sia un ibrido tra un libero professionista e un dipendente. Anche la struttura organizzativa e il rapporto di lavoro si trasformeranno: sulla base di quello che l’azienda fa e farà, ci dovremo chiedere quali sono le persone e le competenze di cui abbiamo bisogno. Questa è la domanda chiave per gli HR oggi pensando al futuro.
Perché il rapporto di lavoro dipendente come lo conosciamo si sta evolvendo verso altre formule e dobbiamo anche noi trovare il modo giusto per adeguarci: penso ai processi di attraction, alla redemption, i layout degli uffici, che fino a due mesi fa erano fondamentali. Il Covid-19 ha sparigliato le carte: potrei attrarre talenti che vivono ovunque, il southworking può non essere un fenomeno temporaneo. Sono tutte questioni su cui mi interrogo e a cui cerco di dare delle risposte, pensando che saremo tra le funzioni più impattate da questo tipo di cambiamento.
Quali saranno le competenze dei manager del futuro?
La delega sarà una competenza da sviluppare continuamente, così come la gestione dei collaboratori e del feedback, l’assegnazione degli obiettivi e dei progetti: di fatto necessitiamo di una nuova digital leadership. Sembrano degli evergreen e si dà per scontato che un manager li possieda solo per ruolo, però sto osservando che su alcuni concetti si fa ancora molta fatica, specie quando si tratta di cercare di gestire i propri team. È come se stessimo attuando un progetto di change management, per abbandonare le certezze e il mood consolidato di lavorare, figlio dei tempi. A queste, si aggiunge la capacità di trovare soluzioni: il problem solving è diverso oggi perché è tutto più complesso.
Come il digitale inciderà sugli sviluppi aziendali futuri?
Io credo che adesso tutti i sistemi digitali siano utilissimi: ci hanno permesso di non bloccare l’operatività, ma sono tutti stand alone, non abbiamo ancora nulla di veramente ed interamente interconnesso, perché replicano i silos funzionali. L’evoluzione di queste forme del digitale dovrà essere qualcosa di più olistico, qualcosa che metta tutto a sistema e che permetta di avere tutta l’azienda in un’unica console gestionale. Dobbiamo, inoltre, evolvere in modo da poter permettere situazioni collaborative e più creative: quando si fanno i meeting non siamo ancora al livello che avevamo in presenza, perché siamo distratti e non abbiamo, ancora una volta, sistemi interconnessi e che facilitino la partecipazione, così da diventare anche fonte di creatività e di nuove idee.