Come ha impattato la pandemia sul Gruppo Marzotto?
Abbiamo sofferto e stiamo tuttora soffrendo come tutto il sistema moda. Il lusso, che storicamente sappiamo essere l’ultimo settore ad entrare in crisi ed il primo a riprendersi, questa volta ha subito un colpo micidiale dalla chiusura dei suoi mercati tradizionali. Stimiamo che anche il 2021 sarà difficile per il Gruppo ma che nell’ultimo trimestre avremo una lenta ripresa, dopo aver accusato perdite di circa il 30-40% del fatturato del 2020, a seconda dei comparti. I tessuti in lana per l’abbigliamento formale, per esempio, che soffrivano già da un paio di anni, hanno avuto un accentuarsi di questa curva discendente; lino e velluto, invece, vanno meglio perché hanno delle applicazioni anche domestiche.
Come hai vissuto la pandemia in qualità di HR Director?
So che rischio di essere male interpretato, ma questo lungo periodo di difficoltà è stato anche, per certi versi, molto stimolante per me e per la nostra professione perché abbiamo dovuto governare l’emergenza, spesso in solitudine, e siamo tornati a gestire quelle dinamiche operative che avevamo perso un po’ per strada per privilegiare i processi.
Si è capito che le competenze trasversali, che hanno solo alcuni manager, consentono di affidare loro con sicurezza problematiche emergenziali, atipiche rispetto alla gestione del business. Oltre a gestire l’attività ordinaria e le criticità del periodo – la riduzione degli stipendi, la gestione delle cassa integrazione, gli accordi straordinari, ecc. –, gli HR hanno gestito anche degli aspetti normativi e organizzativi di contenimento del Covid.
Quali comportamenti hai maggiormente allenato durante il lockdown?
Credo di aver allenato la capacità di prendere decisioni vincolanti per gli altri, assumendo una leadership che, fino al momento prima, era più di servizio. Sono generalmente l’uomo della gestione, del regolamento e il garante dell’equità dei trattamenti, mentre quando c’è stata la delega sostanziale delle problematiche Covid-19 ho preso in mano la situazione.
Ho una formazione giuridica e un approccio che fa molto leva sulla conoscenza: in molti casi non si tratta di scegliere tra giusto e sbagliato, ma scegliere un orientamento, facendosi guidare dalla cognizione di causa, senza farsi trascinare dalle emozioni del momento e optando per una messa a terra di competenze culturali, aspetto che ha aiutato me e i colleghi HR, anche se con alcuni colleghi di Business è un braccio di ferro su alcuni temi.
Che cosa vi hanno chiesto le persone?
Durante il lockdown l’emergenza era dare alle persone regole e strumenti, poi col tempo ci siamo attrezzati, pubblicando anche la prima policy sullo smartworking e diversi regolamenti.
Le persone desiderano certezze e noi ci impegniamo per fornirgliele. I colleghi ed io siamo coloro a cui chiedere informazioni e spesso diamo risposte, alcune di carattere tecnico altre proprio di carattere generale, risposte che a volte sono più da Medico Competente o da RSPP che non da HR. Come holding, chiaramente, siamo fisicamente lontani dagli stabilimenti, eppure continuiamo ad essere un punto di riferimento.
Sin da quando è stato emesso il secondo DPCM, ci siamo relazionati con le Organizzazioni Sindacali nazionali per costruire un protocollo unico valido per tutto il Gruppo in Italia e all’estero, condividendo anche passaggi complicati e trovando alcune soluzioni e mediazioni difficili. Il Personale ha molto apprezzato questa unità di intenti, come abbiamo potuto rilevare nell’indagine del Corriere della Sera che ci ha posizionato al 4° posto di settore tra gli Italy’s Best Employers.
Come è cambiato il lavoro della funzione HR con questa pandemia?
Se penso al futuro dell’HR management all’indomani della pandemia e guardo alla ricerca Censis svolta sulle PMI e sulle aziende più grandi e multinazionali relativamente all’organizzazione del lavoro, emerge come le prime, in un mondo già cambiato, almeno nel 70% dei casi torneranno al modo di lavorare di prima, mentre le grandi aziende sceglieranno modelli di organizzazione diversi e più flessibili; noi dovremo lavorare per costruire un terreno fertile per l’innovazione, la sostenibilità, l’internazionalizzazione. Tutti faremo tesoro, almeno in parte, delle novità introdotte dalla pandemia, anche con una maggior attenzione alle dinamiche dei costi fissi.
In Veneto il benchmark di modello gestionale delle imprese, salvo alcune realtà virtuose spesso vicine al mondo accademico, è nelle piccole e medie aziende e non dalle grandi realtà: molti imprenditori vogliono esserci e governare con il detto “o la tendi o la vendi” (“o gestisci direttamente l’Azienda o è meglio venderla”); in questo contesto è dunque difficile pensare a cambiamenti consolidabili in tempi rapidi ma dobbiamo saper lavorare per questo.
Se dovessi dire cosa è cambiato, direi la percezione di necessità: prima come HR eravamo percepiti come una struttura lontana ed un costo necessario, ora siamo percepiti come una funzione necessaria, soprattutto per fare fronte alle emergenze, altre che alle esigenze.
Come si configurerà secondo te il mondo del lavoro nel futuro?
Sono convinto che anche prima della diffusione del virus SARS CoV-2 vi fossero dei percorsi innovativi ineluttabili nelle aziende che oggi hanno avuto un’accelerazione come, per esempio, la dematerializzazione del posto di lavoro e la sua necessaria connettività, penso anche all’ibridazione del lavoro, intesa come mix di ruoli e competenze, che rendono tutti molto più flessibili. In molte medio/piccole aziende il lavoro agile verrà riassorbito ma rimane la consapevolezza che si debba e possa fare diversamente.
Io credo che la pandemia sia un acceleratore, anziché un momento di svolta, del nostro modo di vivere l’abitudine all’informalità, portandoci a vivere in modo più smart in generale; è mutato anche il modo di relazionarci al lavoro: più diretto, più friendly, anche nel vestire, nel linguaggio è sparito il “lei”, c’è un’accelerazione verso una modernizzazione, forse anche verso una banalizzazione delle cose.
Quali competenze dovranno possedere i manager del futuro?
Ci serve già oggi il coraggio di essere disruptive, cioè di essere capaci di pensare in maniera creativa, anche in termini di comunicazione, e di essere contaminati dal mondo esterno per portarlo dentro le nostre aziende che sono spesso autoreferenziali. Non è facile: non c’è mai l’applauso per chi dice qualcosa di diverso o avanza proposte, c’è anzi il dubbio del perché lo dica.
Aggiungerei poi la capacità che i manager dovranno avere di adattarsi velocemente al nuovo, la capacità di gestire in modo più moderno dinamiche e progetti per obiettivi e la multidisciplinarietà, che risiede nel saper agire su più piani e su cose diverse. Infine, l’apertura al mondo, che è un’indole quasi personale che bisognerebbe saper coltivare.
Come inciderà il processo di digitalizzazione nel mondo fashion?
La digitalizzazione e i progetti 4.0 portano all’automazione industriale spinta e all’intelligenza artificiale nel mondo dei servizi. Per il settore moda, dove l’incidenza del costo del lavoro è più del doppio dell’automotive, il digitale inciderà molto ma la rammendatrice sarà sempre per noi al centro per fare quel prodotto di qualità che ci distingue nel mondo.
Tutto il mondo dei servizi è stato sopraffatto dalla digitalizzazione, la stiamo sempre più studiando ma, in generale, l’Italia è e rimarrà un Paese fortemente manifatturiero e il nostro modello non può essere la Finlandia, bensì la Germania.