Come il lockdown ha impattato sul tuo lavoro e, in generale, sul lavoro degli HR Director?

Con la pandemia, come funzione HR, abbiamo dovuto soprattutto serrare le fila ed è stato indubbiamente un esperimento interessante. In generale, credo che tutti quelli che fanno il mio mestiere si siano trovati impreparati di fronte ad una sfida inedita che ha messo alla prova una serie di elementi tra cui modello organizzativo, leadership e tecnologie.

Una sfida inedita che ha però rappresentato anche uno stress test rispetto alla capacità del management di lavorare insieme, capacità non sempre adeguatamente allenata.

Sicuramente siamo di fronte alla necessità di un upgrade culturale del ruolo delle funzioni HR in senso lato, che nel 2020 hanno agito “semplicemente” (tra virgolette, perché non è poca roba!) nei termini dell’assistenza al management e alle persone, svolgendo un importante ruolo nella reazione all’emergenza, ma con una non sempre sufficiente proattività.

Quali richieste ti sono giunte dai collaboratori in quei (e questi) mesi?

I bisogni dei collaboratori sono davvero in forte evoluzione in questo momento. Provo ad andare con ordine.

All’inizio della pandemia i colleghi hanno posto domande generate dalla paura del virus, ponendo argomenti che pretendevano risposte veloci ed efficaci a tutela della loro salute. Abbiamo deciso immediatamente di consentire ad oltre il 90% delle persone di lavorare in telelavoro (da non confondere con lo smartworking, tutt’altra cosa rispetto a quello che abbiamo vissuto), senza alcuna interruzione della macchina amministrativa e della ricerca scientifica.

Quando la curva epidemiologica si è stabilizzata, terminato il lockdown, molti hanno cominciato a chiedere di tornare in ufficio, con tutte le tutele del caso, forse anche per stanchezza, oltre che per una questione psicologica: il lavoro vive infatti anche di una dimensione sociale.

Siamo arrivati all’estate con un rientro graduale delle persone negli uffici e nei laboratori, con sempre meno telelavoratori, che si sono ridotti fino al 35% nel mese di settembre.

Ora sta tornando la paura e stiamo rivivendo le sensazioni di marzo/aprile. Ma se il primo picco lo abbiamo superato anche grazie all’adrenalina, ora la mia percezione è che prevalgano stanchezza e frustrazione.

Quali azioni avete intrapreso in questo periodo per i collaboratori?

Una delle azioni avviate a cavallo dell’estate è stato un coaching per i team, con l’obiettivo di affrontare in particolare il risvolto emotivo della situazione. Lo abbiamo fatto con webinar aperti e parlando di conciliazione casa-lavoro, rafforzati da un servizio di sportello psicologico. Per alcuni middle manager abbiamo progettato un percorso di coaching specifico per il supporto ai team, con l’obiettivo di dare loro gli strumenti cognitivi per la gestione del ruolo in termini di ascolto attivo e lettura dei bisogni altrui, ma anche per poter rappresentare una guida. Si tratta dunque di non ridurre il ruolo del capo soltanto a colui che dà gli obiettivi e valuta le persone.

Ci siamo, inoltre, aperti all’ascolto, sottoponendo a tutta la nostra organizzazione una survey sul telelavoro. Le domande sono state poste con l’obiettivo di capire come questa esperienza sia stata vissuta dal punto di vista dello staff e del management, quindi abbiamo interrogato i primi sulle proprie sensazioni e i secondi sul giudizio maturato agendo il proprio ruolo.

La cosa che ci ha sorpreso è che le risposte tra le due popolazioni e le motivazioni di benessere e malessere si sono rivelate sovrapponibili. La nostra lettura di questa totale coincidenza è che la crisi ha innescato un incremento qualitativo e quantitativo della comunicazione, le persone si sono confrontate molto più che in passato e lo scambio conseguente è diventato un dialogo anche personale, non solo meramente operativo: questo ha prodotto un rinforzo del livello di engagement e della condivisione del momento per superarlo insieme.

Qual è il presente e quale sarà il futuro della funzione HR in questo New Normal?

A mio avviso il ruolo HR si è arricchito del mandato di aiutare il management a gestire la situazione e si è rivelato un interlocutore di ascolto attivo per tutti. Abbiamo agito quale “advisor” di sostegno, i miei collaboratori HR verso le persone, io con il management, provando a rispondere ad una preoccupazione che si è tradotta in domande del tipo: “Come andranno le cose? Come dovrò gestire le persone? E le performance?”.

Non abbiamo ridisegnato l’organizzazione in pochi mesi, ma siamo riusciti a fare squadra nella compagine dei leader e a consentire a tutto il gruppo di trovare le energie – e anche qualche nuova idea – per far fronte alla situazione.

Più in generale, al di là dell’aspetto emergenziale ed estemporaneo, la centralità del ruolo HR acquisirà sempre più significato e rilevanza da qui in avanti. Oggi è il momento di ripensare l’organizzazione, i suoi modelli di leadership e delle competenze. Stiamo avviando una riflessione quindi su come faremo le nuove selezioni, come selezioneremo i manager del futuro.

E come saranno questi manager del futuro? Quali attitudini e competenze avranno?

Servono manager capaci di lavorare in modo agile e asincrono, in grado di garantire le performance anche in situazioni come questa.

Ragionando, direi che sta cambiando un po’ tutto, dalla scrittura dei job post allo screening dei candidati. È quanto applicabile già da domani mattina, sapendo che se assumo qualcuno oggi, potrei non incontrarlo in ufficio per i prossimi 6 mesi.

Sta cambiando al contempo anche il ruolo della funzione HR, che deve acquisire nuove competenze nella modellazione dei profili da inserire nell’organizzazione. Altro tema su cui investire per un upgrade culturale è quello digitale: la rivoluzione digitale non può essere lasciata in mano all’ICT, deve essere governata da noi, che dobbiamo poter valorizzare il digitale e inserirlo nei processi organizzativi e nel modo in cui le persone agiscono il proprio ruolo.

Il leader di domani deve anche avere competenze come l’ascolto attivo, il coaching, la capacità di trasferire agli altri chiarezza sul perché di un certo progetto, il giusto tatto nell’avvicinarsi alle persone e nella gestione del feedback. Questo processo di cambiamento è una delle sfide degli HR di domani.

E come si trasformerà, secondo te, la leadership?

La leadership di domani sarà più una followership, legata anche alla trasformazione della società e del digitale. La pandemia sta accelerando questo processo. Le persone saranno sempre meno omologate e omologabili al mindset organizzativo – perché il lavoro non sarà più lo specchio con cui le persone si confronteranno per capire cosa hanno fatto di buono nella vita – e saranno le aziende che dovranno sedurre le persone in termini di valori, così da conquistarne la fiducia. Il discorso è pragmatico: le aziende devono produrre e fare business, ma per fare questo devono ingaggiare persone che saranno sempre più aliene ai processi di valutazione che attuiamo oggi. Per le generazioni nate fino agli anni Settanta-Ottanta, il lavoro ha rappresentato il parametro attraverso cui ci si valutava, l’elemento che dava adrenalina, che spingeva a fare cose sempre migliori. Questo meccanismo a mio avviso sarà sempre meno vero.

Come sta cambiando dunque, dal tuo punto di vista privilegiato, l’organizzazione a cui appartieni, il mondo e il mondo del lavoro?

L’avvento dell’Intelligenza Artificiale nei processi produttivi comporterà una polarizzazione, in quanto acquisirà sempre più peso sui task operativi in rapporto all’attività umana. Immaginiamo una curva gaussiana: nella parte alta della campana c’è l’Intelligenza Artificiale, nella coda a sinistra della curva ci sono i lavori a basso valore aggiunto, in quella a destra ci sono i ruoli di eccellenza, dove l’intelligenza artificiale non impatta perché non ci arriva oppure costa troppo. Le due code sono rappresentative delle attività per le quali il lavoro umano è più conveniente rispetto all’intelligenza artificiale, anche se per ragioni opposte: il tempo ridurrà le due code, a destra e a sinistra. Parlando della coda a destra, dove si posizionano le professionalità che fanno la differenza e danno vantaggio competitivo, cambieranno i criteri per la selezione.

Quale ruolo il Digital giocherà negli sviluppi aziendali futuri?

Il digitale è come un sesto senso, aggiuntivo, che ci dà una cosa che prima non avevamo, e cioè un’ulteriore lente attraverso la quale interpretare il contesto e il mondo. E avvolge l’employee experience: il digitale va dunque governato in termini di sviluppo. Va guidato con questa consapevolezza e, ripeto, non è il solo ICT che può averne il governo.

Come digitale e leadership possono andare di pari passo?

Ci sono alcune parole d’ordine che valgono per tutti: il digitale trasformerà alcune figure che spariranno, avrà un impatto altissimo. Per me la chiave è un cambio antropologico e culturale sulle persone, tale per cui avremo un modo diverso in cui i collaboratori interpreteranno il proprio ruolo nell’organizzazione. Il digitale diventa causa-effetto: prospettiva di grande trasformazione culturale, che in termini più concreti, porterà a una trasformazione del concetto stesso di valore. Il digitale significa trasformare i processi produttivi portandoli a efficienza massima con un vero elemento distintivo, la mano dell’uomo, che permetterà di avere un vantaggio sui competitor. Diventa quindi centrale la capacità di eccellere grazie al fattore umano, perché sarà l’eccellenza l’elemento che ci permetterà di competere.