Cosa ricordi del primo lockdown?
Quando tutto è cominciato io avevo preso due giorni di pausa: ricordo che mi trovavo sul lago di Garda, e facevo call su call cercando di convincere i miei interlocutori che non avevamo tempo da perdere e dovevamo fare un crash test sul flexible working: “Spostiamoci nell’hotel vicino” dicevo “e vediamo se funziona da fuori Azienda”, perché ero consapevole che da un momento all’altro sarebbe stato necessario rimanere chiusi in casa.
Posso dire che l’esperienza che ho avuto in passato in BNL sul lancio dello smartworking è stata preziosa: in DEPObank siamo una realtà di 400 dipendenti e quando sono arrivata era in corso una timida sperimentazione di flexible working (solo su alcune funzioni di staff). Non appena sono arrivata abbiamo avviato un’analisi organizzativa puntuale. Alle soglie del lockdown avevamo un terzo dell’azienda in flex, attivando anche le funzioni di business e un piano di attivazione che prevedeva in 18-24 mesi l’estensione del flex a tutti.
Come hai agito? E come ti sei sentita?
In quel momento ho spinto con tutta la mia determinazione. Con un lavoro h24, avendo a disposizione un piano puntuale, siamo riusciti a realizzare in due settimane – soprattutto con le strutture IT e Facility – quanto avevamo previsto di fare in 24 mesi. Abbiamo dotato tutti di device, remotizzato i processi. Grazie anche all’analisi organizzativa fatta in precedenza, siamo riusciti con un grande lavoro di squadra a portare l’azienda a lavorare al 100% da remoto in tempi brevissimi.
Devo dire che è stata una grande soddisfazione, perché siamo riusciti a lavorare, con qualche difficoltà, certo, ma abbiamo retto alla prima ondata. Avevamo poi iniziato anche un percorso di rientro graduale, ma ci siamo fermati, addirittura anticipando le decisioni del governo. Se ci ripenso mi sembrano passati dieci anni… una trasformazione culturale incredibile in qualche settimana. È cambiato il paradigma “lavoratore / luogo di lavoro”: l’urgenza ha fatto diventare tutto possibile. E adesso ho una serie di attestazioni di positività in merito al flexible working, anche da parte di persone che erano dichiaratamente contrarie e che si sono ricredute.
Come è cambiato il tuo ruolo?
Ho sentito l’esigenza di essere più vicina alle persone, cosa che può sembrare paradossale in un momento in cui eravamo lontani. Ho cercato le parole per dimostrarlo e i mezzi per esserlo, organizzando con l’AD delle video call con le prime linee e con i loro primi riporti. Io stessa ho organizzato delle “quick SAL” (stato avanzamento lavori, ndr) con il mio team che ho periodicizzato sul calendario.
Cosa hanno chiesto le persone? E cosa avete poi chiesto loro?
Le persone hanno chiesto chiarezza e sicurezza. Sicurezza perché in un contesto di questo genere c’è stato uno switch dei valori individuali che ha costretto anche le aziende a un reset dei propri valori, inevitabilmente – direi – essendo le aziende un insieme di persone. Siamo tornati ai bisogni primari di Maslow: poter avere un lavoro sicuro, quasi un ritorno alla base della piramide dei valori essenziali.
Abbiamo avuto modo di verificare il mood delle nostre persone anche grazie ai questionari sullo “Stress Lavoro Correlato” che hanno avuto tassi di rispondenza fino all’87%. È stata l’occasione per indagare anche le diverse dimensioni dell’emergenza sanitaria, compresa quella del benessere psicologico, perché volevo capire quanto lo stress individuale nascesse da cause esogene o fosse piuttosto determinato dai comportamenti e dalle decisioni aziendali. Ora sappiamo che le persone sono psicologicamente impattate dalla situazione, ma dal punto di vista del lavoro sono serene: e questa è la cosa migliore che abbiamo seminato in questi mesi.
Quali azioni avete messo in campo per i collaboratori?
Avevamo istituito un comitato di crisi interno che si è incontrato inizialmente anche tre volte al giorno, per poi diventare giornaliero e infine settimanale. Comitato ristretto, che abbiamo però progressivamente allargato a tutta la prima linea. Questo ci ha permesso di essere veloci nella presa in carico e nella risoluzione delle problematiche. Non potevamo poi mancare di parlare con i nostri dipendenti: nel primo periodo abbiamo inviato una mail giornaliera e molto semplice, con sintesi anche delle normative che stavano emergendo, con un sunto delle misure messe in piedi dall’azienda, i numeri di telefono di riferimento. Abbiamo optato per la velocità: in questo modo le decisioni del comitato venivano trasferite subito ai colleghi.
Abbiamo definito un ricorso massimo al flexible working, mettendo a disposizione delle nostre persone gli strumenti e consentendo di lavorare anche dalle seconde case in estate. Abbiamo reso disponibili delle presentazioni su come migliorare e ottimizzare il lavoro del capo e del collaboratore in flex: due manuali costruiti con il supporto interno di tutti per cercare di migliorarci e valorizzare le nostre esperienze del periodo.
Come è cambiato il tuo ruolo di Direttore HR? E come si è evoluto quello della funzione?
Ho sempre avuto la convinzione che il Direttore HR fosse un animale un po’ strano, perché deve avere il rigore del metodo e la sensibilità di uno psicologo, e ora più che mai è così. Bisogna avere chiara la rotta, ma anche saper ascoltare e cogliere i segnali deboli dell’Azienda.
Questa seconda ondata è più difficile da gestire. Nella prima ondata c’era l’euforia di aver messo l’azienda in flex, la gratificazione per aver fatto qualcosa di straordinario: preservare il lavoro e la sicurezza delle persone. Ora siamo in una seconda lunga ondata con la consapevolezza di cosa significhi e con la stanchezza. Il flex è positivo, ma solo flex working è alla lunga alienante. Questa seconda ondata mette in evidenza i soggetti fragili, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. E l’azienda deve rendersi conto della situazione e sviluppare le proprie capacità di ascolto e di azione. Credo che questa situazione mi abbia aiutato ad affinare le mie competenze come “manager integratore e facilitatore” e di aver allenato la mia capacità di individuare possibili strategie per riuscire a guardare oltre.
Come sarà il futuro del mondo del lavoro?
Tornare al lavoro in presenza tutti quanti sarebbe, a mio avviso, come andare contro la forza di gravità, ma ho il timore che si tenterà di tornare a come eravamo prima, anche se siamo in una situazione in cui è cambiato il paradigma. Sarà necessario rivedere in modo concreto le aziende, fare scelte di cambiamento e di ripensamento anche importanti: quando c’è un cambio di paradigma il sistema evolve e ci sono esigenze e mondi che spariscono e altri che nascono. È simile al modello darwiniano. Una delle cose che vedo più paralizzante nel sistema Italia è il cumulo di vincoli normativi, di burocrazia e di rendite di posizione. Abbiamo un mercato del lavoro statico, ma non per questo garantista, scarsamente meritocratico e non orientato al miglioramento. Penso che per il futuro un elemento chiave sarà la composizione dei salari: una parte dovrà rimanere fissa e una parte sempre più importante, a mio avviso, dovrà essere variabile e legata ai risultati e alle dinamiche di contesto.
Come sarà il manager del futuro?
Ritengo che ci sia in atto un cambio del sistema valoriale: vedo la necessità di manager che pensino al bene dell’azienda, inteso anche come “bene comune”, ovvero inclusivo di tutti gli stakeholder. In contesti di crescita economica è facile individuare negli interessi degli azionisti anche gli interessi degli altri attori in gioco. La situazione evidentemente si complica – e non poco – in situazioni di crisi o di contesti altamente dinamici.
Un’altra competenza importante è la flessibilità: un manager che ha la capacità di mettersi al servizio dei team e dell’azienda, che dia spazio, che faccia in modo che si trovino soluzioni nuove, mai scritte e pensate.
In più sarà fondamentale che i manager sappiano concedersi più tempo per un pensiero raffinato prima di buttarsi a capofitto nell’execution. Questa pandemia mi ha ricordato che nelle agende non abbiamo uno spazio per pensare, anzi, sono fitte di impegni, video, call. Proprio quando il contesto è variabile bisogna avere il coraggio di fermarsi e pensare. Anche se si ha una rotta, come un piano industriale, il cambiamento del contesto impone inevitabilmente nuovi ostacoli da affrontare, e la strada tracciata può non essere la strada giusta. In questo caso è necessario guardare da un punto di vista diverso, pensare e avere il coraggio di cambiare, se necessario: ecco, servono leader capaci di capire che se e quando cambiare strada, che si concedono anche il pensiero, non solo l’azione.
Quale ruolo giocherà il digitale negli sviluppi aziendali futuri?
Il digitale, volenti o nolenti, è parte delle nostre vite: siamo sopravvissuti grazie al digitale, possiamo parlare e vederci anche in questa situazione emergenziale grazie al digitale. È però importante usare il digitale e non farsi usare da esso: dobbiamo ricordarci che è un mezzo e non un fine. Auspico, dunque, che si possa integrare con la parte human, altrimenti ne perdiamo il senso ed il valore. Ritengo, inoltre, che il digitale imponga lo sviluppo di una competenza chiave, oggi poco coltivata: quella dell’approfondimento e del discernimento, perché l’eccesso di informazioni che affollano il web rendono sempre più superficiale l’approccio, sempre più automatico.
Lo sviluppo dei sistemi digitali e dell’intelligenza artificiale apre scenari drammatici nell’ambito lavorativo ed occupazionale. Ma ciò che distinguerà sempre l’Uomo dai sistemi digitali è la capacità di pensare. Pensare significa anche pensare al significato di quello che facciamo e di dove vogliamo andare e, per farlo, è necessario che ci prendiamo del tempo così da saper distinguere le informazioni che sono importanti da quelle che lo sono meno, così da scegliere bene. Approfondimento e discernimento, che rischiano di esser persi in un mondo sempre più digital.