Come hai vissuto il lockdown in qualità di Direttore HR?

L’ho vissuto in modo diverso rispetto ad altri colleghi: sono infatti arrivato in A2A a luglio 2020. Prima ero in Enel, dove ricoprivo un ruolo di HRBP di funzioni globali. Sono stato uno dei “fortunati” perché non avevo in realtà una responsabilità operativa che facesse andare avanti la macchina, ruolo che era invece più degli HR sui territori. Ho dunque partecipato alle riunioni di crisi, contribuendo certamente, ma rimanendo un po’ defilato.

In A2A ho trovato poi al mio ingresso una struttura che aveva risposto bene: sono arrivato in un momento meno complicato, quando si pensava a strategie per gestire eventuali recrudescenze della pandemia. Sicuramente però abbiamo tutti compreso che si possono fare certe cose, come lavorare in smartworking, pur senza avere una completa consapevolezza di che cosa significhi lavorare in questo modo a lungo termine.

Come si sta evolvendo la funzione HR dal tuo arrivo e in concomitanza di una pandemia?

Una delle prime cose che ho fatto appena arrivato è stato creare una funzione di che combinasse eccellenza operativa, comunicazione interna e change management: il manager oggi di questa struttura ha l’obiettivo di disegnare il New Normal che sarà per noi “New Ways of Working”. Abbiamo prima di tutto provato ad ascoltarci, lanciando una survey a tutti gli HR. Abbiamo poi portato avanti alcuni incontri con i direttori per comprendere la loro visione e faremo dei focus group a scendere coinvolgendo i colleghi in ruoli operativi e amministrativi.

Questa struttura ha anche il compito di lavorare sul “workplace planning” del nuovo palazzo che ci immaginiamo di costruire a misura di futuro, pensando a nuovi temi, nuove skills, nuovi modi di lavorare, e appunto nuovi spazi.

Mi sono immaginato questa funzione come il cursore di una cerniera, che scorre fra i denti, che sono, da una parte, le practices verticali HR (relazioni sindacali, talent management, performance, etc.), dall’altra le funzioni di business: i colleghi sono l’unione, in grado di mettere insieme tutte le esigenze, ripensare strumenti e contenuti, immaginare come cambieranno i rapporti di lavoro. Sfide del futuro ma già del presente: ad esempio ci chiediamo già come sta cambiando il performance management nel momento in cui non vediamo più le persone, e il ragionamento che bisogna attuare è di rivisitazione di ciò che facevamo affinché le valutazioni oggi siano più oggettive e misurabili.

Come cambia il ruolo del manager? E quali competenze dovrà possedere per adattarsi al New Normal e fare bene in azienda?

Dobbiamo dare ai manager la sensazione che non perdano il controllo perché i collaboratori non sono vicini. Quasi nessun manager ha davvero il desiderio di controllare di per sé cosa fanno i collaboratori, ma il controllo risulta funzionale se vogliono raggiungere i risultati e far bene il proprio lavoro. Oggi però dobbiamo dare loro un modo nuovo di gestire e incoraggiare le persone, provando a oggettivare il lavoro e a usare competenze di cui abbiamo parlato negli anni scorsi e che tornano oggi con una nuova energia: empatia, intelligenza emotiva, ascolto letto nella sua duplicità, il saper ascoltare letteralmente ma anche il saper far parlare le persone, condividere e costruire la fiducia per cui le persone si possano confidare con noi.

Inoltre, deve sapersi adattare al modo diverso di lavorare: non c’è più la chiacchierata alla macchinetta del caffè, ma bisogna creare delle occasioni di ascolto. La deliberata pianificazione del proprio modo di essere manager non può più essere casuale, perché ciò che è fuori dall’agenda non accade.

Come si è evoluto il tuo ruolo, invece?

Io faccio questo lavoro da 32 anni. È ovvio che tutto quello che è la componente umana e umanistica è ciò che più risalta alla mia attenzione. Credo però che come manager dovremo diventare molto più dei coach, perché non vediamo più le persone e non riusciamo più a guidarle con la sola presenza: il coach aiuta a comprendere i fenomeni nuovi, dà fiducia e lascia andare le persone, affinché queste sperimentino e, perché no, sbaglino, imparando dai fallimenti e dalla condivisione degli sbagli, a beneficio di tutti, senza stigmi. Solo così potremo innovare davvero.

Come direttore HR oggi attuo molta più condivisione e ho la necessità di convincere e di allineare. Meno decision making, più allineamento e condivisione, nonché la capacità di generare e gestire i dubbi.

E la funzione HR come sta cambiando?

Il mio team è per me nuovo, e questo rende per certi aspetti più facile il cambiamento: quello che sto facendo in A2A è creare più allineamento con le persone, facilitando un rapporto sempre meno stellare e più di condivisione. Mi tolgo spesso deliberatamente dalle dinamiche del one-to-one e chiedo di lavorare e portare qualcosa, incoraggiando anche su temi e approcci interdisciplinari.

Sto dando, inoltre, una grande enfasi anche al team sotto ai miei diretti riporti, lavorando direttamente anche con loro, scambiando opinioni in conference call, cercando un contatto più diretto, costante e ricorrente con tutta la funzione. Oggi c’è ancora più necessità di creare un senso di comunità e condivisione degli obiettivi, e lo sto facendo coinvolgendo tutti nella costruzione della strategia. Infine, delego di più e lascio fare e pensare di più.

Il futuro di A2A come sarà?

La vera sfida sarà portare tutti i 1200 manager allo stesso livello, allineati in termini di idee e modus operandi sui nuovi modi di lavorare: per arrivare a questo li stiamo coinvolgendo molto di più, affinché il cambiamento si attui. Tutto è finalizzato ad avere il loro input e a costruire insieme a loro.

Noi avremo tra qualche anno un palazzo di 26 piani e non sappiamo davvero come sarà lavorare in questi nuovi spazi: per questo abbiamo deciso di chiedere alle persone e abbiamo organizzato dei focus group – anche divisi per generazioni – nei quali chiediamo come si immaginano il futuro, così da prendere decisioni e portare avanti progettualità sempre più condivise. Aggiungo a queste considerazioni anche un bellissimo tema di frontiera: l’apertura degli spazi delle aziende al territorio, l’arricchimento che si può trarre, anche aziendalmente, dall’essere contaminati dal territorio circostante, grazie per esempio a un museo, a spazi di coworking per universitari… è tutto da studiare, ma l’intenzione è di compenetrare l’azienda con la società civile.

Come il digitale impatterà sugli sviluppi aziendali futuri?

C’è un gran parlarsi addosso su alcuni temi, e il digitale è uno di questi. Credo che il digitale e l’uso dei dati per dare una lettura gestionale delle aziende siano uno dei vantaggi che dobbiamo portarci a casa. Dobbiamo avere una lettura vera della customer journey e dell’employee experience e dobbiamo catturare tutto attraverso una struttura digitale avanzata. 

La mia people strategy vuole avere una conoscenza dei collaboratori a 360 gradi, in grado di valutare tutte le informazioni che ho dentro e fuori dall’azienda, comprese le profilazioni pubbliche, ad esempio, di Amazon e Google. In questo senso, per fare un uso corretto dei dati, serve una componente etica forte da parte delle aziende: come posso usare queste informazioni a beneficio del dipendente e del mio collega, magari provando ad aiutarlo in una situazione di disagio? Credo davvero che l’integrazione dei dati dell’azienda con quelli a cui posso legalmente accedere mi aiuti davvero a gestire le persone nella loro totalità, per farle lavorare, e vivere, meglio.

Come sarà il mondo del lavoro in futuro?

Ho una visione ottimistica, e forse utopistica, data anche dal fatto che ho vissuto e lavorato tanti anni all’estero: vorrei che la relazione tra azienda e collaboratore evolvesse da un rapporto che è oggi di tipo adulto-bambino a un rapporto più adulto-adulto. Le aziende italiane sono molto mamme, mentre mi piace più pensare alle aziende come a dei ‘club’ a cui le persone si iscrivono, entrano e decidono di rimanere. Vorrei, inoltre, un mondo del lavoro dove ci sia più autonomia e imprenditorialità, un mondo in cui ci sia attaccamento alle aziende per quello che fanno e pensano, ma con più mobilità. Utopistico se si pensa al mondo del lavoro italiano, congelato e immobile, che però dovrà cambiare, e cambierà e diventerà più flessibile quando cominceremo a pagare le persone sulla base dei risultati che ottengono, cosa che sta già accadendo nel resto del mondo. Novartis parla ormai da qualche anno di “unbossed organization”, in cui le persone decidono il modo in cui si organizzano e fanno le cose, e poi alla fine dell’anno si giudica il capo dai risultati: questo secondo me è un po’ il mondo del lavoro futuro. E più parlo con i ragazzi più me ne convinco: per loro la gerarchia è meno importante, anche i soldi hanno meno valore, ciò che conta è fare qualcosa di eccitante e divertente e questo porterà nelle aziende una maggiore imprenditorialità.

Tanti parlano poi di work-life balance, io invece ho smesso di usare questo termine qualche anno fa, perché sono convinto che il bilanciamento sia diverso da persona a persona e l’equilibrio vada ricercato individualmente. 

E poi c’è il tema dello spazio: abbiamo sempre più collaboratori che ci dicono di voler rientrare in ufficio perché gli spazi a casa sono stretti; abbiamo dunque bisogno di ripensare in generale gli spazi affinché siano più aperti e attrezzati.