Mi pare siano soprattutto tre i temi che emergono in modo chiaro e insistito da questa terna di interviste ad Alessandra Benevolo, Mauro Ghilardi e Alessandro Riva (ma possono indubbiamente essere rintracciati anche nelle interviste precedenti): il senso di iniziativa che la situazione di emergenza pandemica ha stimolato nelle aziende, il ruolo fondamentale e sempre più necessario del “meaning” e dei valori nella gestione aziendale, l’affacciarsi di un nuovo stile di leadership fondato sulla delega e sulla responsabilizzazione dei collaboratori.

Partiamo dall’iniziativa e dall’intraprendenza che molte aziende hanno meritevolmente messo in atto durante gli ultimi mesi, il passare dalla constatazione di trovarsi ad affrontare un grosso problema alla convinzione che “effettivamente questa sia stata per certi versi una grande opportunità” (Riva), doti che riconosciamo come prettamente italiche, e che nel nostro Paese si manifestano soprattutto nei frangenti difficili e nelle situazioni di emergenza. Ne abbiamo avuto e continuiamo ad averne tanti esempi, da parte delle nostre Direzioni HR, che si sono inventate e hanno realizzato iniziative, rivolte perlopiù ai propri dipendenti, che hanno permesso di affrontare con maggior agio e con un pizzico di serenità in più la difficile situazione generata dalla pandemia, permettendo a volte di proiettarsi anche verso il futuro: ecco dunque la “Remote Academy” (IPSEN), dedicata agli Informatori Scientifici del Farmaco, che, impossibilitati a visitare i medici, hanno impiegato (utilmente) il loro tempo per approfondire le loro conoscenze scientifiche; o i corsi sulla mindfulness e sulla gestione dello stress, rivolti a tutti i dipendenti (sempre IPSEN), e orientati a garantire a ciascuno maggior benessere; e poi la creazione di una “funzione di eccellenza operativa” (A2A), dedicata a cogliere l’occasione del lockdown per studiare e disegnare il New Normal, anticipando il futuro e identificando soluzione organizzative innovative. Sono solo esempi, che non possono che indurci a rallegrarci per l’inventiva dimostrata da queste e da altre aziende, che (non dimentichiamolo) nello stesso periodo di tempo erano anche profondamente impegnate a gestire l’emergenza e a tutelare la salute dei propri lavoratori, fra nuove procedure da mettere a punto, ai sistemi di protezione da adottare, ai DPCM del governo da interpretare.

Quindi il ruolo del “meaning”, l’importanza di fornire un senso del proprio operare, di identificare e diffondere i valori dell’azienda, di comunicare esplicitamente la propria mission, con una triplice declinazione, relativa a tre diversi pubblici: i dipendenti (con un obiettivo di retention), i nuovi assunti (a fini di induction), gli stakeholder esterni (per fare attraction). 

La distanza fisica e la minore (o nulla) frequentazione degli spazi fisici dell’azienda ci portano a riflettere come ci sia “ancora più necessità di creare un senso di comunità e condivisione degli obiettivi” (Ghilardi). E’ necessario uno sforzo maggiorato per garantire la coesione aziendale in questo momento di emergenza: una rinnovata attenzione ad “alcuni valori, quali quelli della condivisione, dell’identificazione con l’azienda, dell’essere un gruppo di persone e amici oltre che colleghi, che nascono e si sviluppano principalmente con un rapporto di fiducia non mediato dalla tecnologia, ma dallo scambio fisico” (Riva).

C’è poi la declinazione che riguarda i nuovi assunti, che, in molti casi, hanno intrapreso una nuova sfida professionale senza mai nemmeno vedere la sede e gli uffici della loro nuova azienda. In questa condizione diventa difficile garantire loro un efficace processo di onboarding: e non mi riferisco soltanto alla trasmissione di indicazioni relative ai processi e alle procedure aziendali, agli obiettivi del job, alle dimensioni operative da conoscere e seguire, ma soprattutto ai valori, alla cultura, persino all’atmosfera che si respira all’interno dell’azienda. E’ dunque necessario pensare a modalità di onboarding innovative e, soprattutto, non lesinare tempo ed energie per assicurare ai nuovi assunti, e ancor più a quelli giovani, un’introduzione proficua e un’accoglienza “calda” in azienda.

La terza declinazione tocca il tema dell’attraction: “il Covid-19 ha sparigliato le carte: potrei attrarre talenti che vivono ovunque, il southworking può non essere un fenomeno temporaneo” (Riva). E’ necessario da parte delle aziende un approccio diverso al tema dell’attraction, ed a tal fine risulta fondamentale diffondere e far conoscere la cultura e i valori dell’azienda all’esterno, e “giocare” questa carta in fase soprattutto di selezione del personale, non limitandosi a “vendere” un job, uno stipendio o un’opportunità di carriera, ma chiedendo al candidato di apprezzare ed, eventualmente, sposare la mission e il sistema valoriale dell’azienda.

E infine la messa a fuoco di un nuovo stile di leadership, basato sulla delega e sulla responsabilizzazione delle persone, che richiede però anche più vicinanza e più sensibilità nei confronti dei loro problemi. Un leitmotiv di queste come di altre interviste: il forte senso di responsabilità che molti dipendenti hanno dimostrato nel periodo del lockdown; “hanno lavorato, e tanto: quello di cui abbiamo dovuto preoccuparci è stata ad un certo punto la quantità del lavoro che svolgevano” (Benevolo). Fatto che può e deve costituire la prova provata che le persone (con poche eccezioni, che devono naturalmente essere individuate e gestite) di fronte alla necessità e messe nelle migliori condizioni, sono disposte a dare tutto, e non si tirano indietro. Ne consegue un insegnamento per le aziende, i capi e le Direzioni HR: “bisogna imparare a lasciare le persone libere di lavorare come meglio credono, perché questo non inficia sulla produttività” (sempre Benevolo).

Lo stile di leadership suggerito e auspicato è fatto dunque di delega, di responsabilizzazione, di libertà di sbagliare, di nuove modalità di controllo e valutazione dei risultati, che sono da pensare e realizzare, di un accompagnamento a distanza, che assume per molti versi le caratteristiche del coaching: “come manager dovremo diventare molto più dei coach, perché non vedo più le persone e non riesco più a guidarle con la mia sola presenza: il coach aiuta a comprendere i fenomeni nuovi, dà fiducia e lascia andare le persone, affinché queste sperimentino e, perché no, sbaglino, imparando dai fallimenti e dalla condivisione degli sbagli, a beneficio di tutti, senza stigmi” (Ghilardi). Tutto chiaro? Tutto semplice? Forse no. L’altra faccia della medaglia ci porta ad affermare che tutto questo possa funzionare solo se si accompagna ad una maggiore vicinanza (non fisica, naturalmente) alle persone, ad una capacità (sensibilità) di comprenderne i loro problemi, ad una maggiore empatia, ad una disponibilità ad ascoltare e comprendere. Ci pare essere questo l’identikit dell’approccio che Benevolo chiama, con termine suggestivo, “materno”. 

Il compito più significativo per il presente e per il futuro delle Direzioni HR potrebbe dunque essere il seguente: dobbiamo investire sui nostri manager per aiutarli ad appropriarsi di questo nuovo stile, indicando loro “un modo nuovo di gestire e incoraggiare le persone, provando a oggettivare il lavoro e a usare competenze di cui abbiamo parlato negli anni scorsi e che tornano oggi con una nuova energia: empatia, intelligenza emotiva, ascolto letto nella sua duplicità, il saper ascoltare letteralmente ma anche il saper far parlare le persone, condividere e costruire la fiducia per cui le persone si possano confidare con noi” (Ghilardi).