In qualità di HR Director, come hai vissuto il lockdown?
Una premessa: sono atterrata nella nuova azienda proprio durante il lockdown. Sono arrivata il 9 marzo e sono entrata in un ufficio vuoto, dove era presente un solo collaboratore che mi ha consegnato pc e telefono. Ho provato fin da subito – non lo nascondo – un grande senso di inadeguatezza, di disagio, che ho cercato di sopperire studiando il business, le persone, i decreti e le circolari, non dando niente per scontato.
Ho rispolverato tutte le mie conoscenze da giuslavorista con l’intento di dare e trovare delle rotte in un contesto in cui gli stessi governanti non sapevano dove andare (viste le tante pubblicazioni…).
In generale, siamo stati buttati decisamente fuori dalla nostra zona di comfort e personalmente ho compiuto un grande sforzo per ricordarmi chi sono, cosa ho fatto e cosa sapevo fare, e ho fatto appello a tutti i miei risultati passati per non farmi travolgere dal senso di inadeguatezza.
Quali richieste ti sono giunte dai dipendenti in quel periodo?
Prima di tutto ho ricevuto richieste dal leadership team e dall’AD: dai contenuti dei DPCM a pareri su ammortizzatori sociali, cassa integrazione. Ho dato degli input, sconsigliando di accedere a questi strumenti statali per i dipendenti, prevedendo che l’INPS avrebbe avuto forti ritardi nei pagamenti e pensando che avremmo avuto già disagi nelle famiglie e che addossare anche il disagio economico sarebbe stata una brutta cattiveria.
Abbiamo attuato una strategia fatta di ferie forzate, riduzione di tutte le spese non essenziali e, in generale, risparmio. Con il senno del poi, posso dire che i dati dicono che la rotta presa è stata quella giusta.
I dipendenti, in realtà, non hanno avanzato richieste, ma siamo stati noi a porci delle domande. Abbiamo provato a far sentire loro quanta più vicinanza possibile.
Cosa ti ha aiutato a gestire questo periodo?
Una cosa potente e di valore è stato lo scambio che si è attuato tra Direttori HR: un network concreto, che ha permesso il benchmark tra le diverse situazioni grazie a un gruppo su Whatsapp coadiuvato da AIDP Lombardia. A marzo, in pieno lockdown, ci siamo resi conto che fare squadra, condividere le competenze, il confronto sui decreti è stato di grande aiuto. Fortissima solidarietà che ha dato molto valore alla funzione HR. Il gruppo poi è cresciuto nel tempo e oggi siamo circa ottanta direttori HR. Confrontandoci in quell’area protetta, abbiamo maturato la consapevolezza che c’era bisogno di sentirsi e farsi sentire vicini.
Quali azioni hai messo in campo insieme al tuo team?
Le persone non avrebbero chiesto niente probabilmente, tantomeno a me che ero per loro una perfetta sconosciuta. Abbiamo però dato noi comunicazione costante e organizzato varie opportunità di confronto, per stimolare e ingaggiare.
Abbiamo aperto un canale e fatto molta comunicazione top-down per condividere la situazione: e abbiamo visto che parlare in maniera costante alle persone paga, non soltanto per via scritta e con le comunicazioni organizzative, ma proprio in una logica “Questions & Answers”.
Abbiamo istituito incontri una volta al mese, una vera e propria riunione aperta digitale a cui può partecipare chi vuole: ci si collega e le domande sono gradite, e sono convinta che questa practice valga la pena mantenerla anche quando ritorneremo alla normalità, sicuramente ancora in digitale.
Quali competenze hai allenato come Direttore HR?
Sono autoconsapevole di cosa so e di cosa no. Senza questa autoconsapevolezza questa sarebbe stata una situazione da esaurimento nervoso. Sicuramente ho allenato il problem solving: lo abbiamo tutti maturato, ma chi fa l’HR decisamente di più.
Se dovessi fare un bilancio di questo smartworking forzato, quale sarebbe?
Direi che non abbiamo fatto smartworking fino ad ora. Ho avuto il privilegio di provare e implementare il lavoro agile vero: lo abbiamo fatto in Prelios in tempi non sospetti.
Lo smartworking è fiducia, imprenditorialità diffusa, condivisione degli obiettivi, dà diritto alla disconnessione. Invece, questa modalità è lavoro in emergenza fatto male: passare da un meeting virtuale all’altro è un grandissimo sgambetto alle organizzazioni e se questa modalità dovesse permanere, quando avremo il vaccino, rischieremo seriamente di avere persone in burnout e aziende ancora più disfunzionali.
Non nascondo che a un certo punto vorrei avere tutte le persone in ufficio per un risciacquo totale e per un reset generale. Imporrei la presenza in ufficio e la pratica quotidiana per 6 mesi, per poi ritornare a lavorare e impostare una cultura consapevole di lavoro imprenditoriale dentro le imprese; come avevamo fatto in Prelios, dove prima di implementare lo smartworking avevamo portato tutti in aula a parlare di concetti come l’analisi transazionale in azienda, o delle tecnologie non in funzione dello smartworking, ma come fattore meramente abilitante.
Come è cambiato il ruolo del Direttore HR?
Il ruolo in sé non è cambiato, perché era già cambiato nelle aziende moderne, passando da quello che faceva paghe e contributi o le relazioni sindacali a quello dell’influencer culturale. Sicuramente però si è evidenziato il valore della leadership giusta di chi fa questo mestiere.
È cambiata la percezione del Direttore del Personale: anche se non ha una responsabilità diretta e misurabile sul conto economico, è molto di più un business leader. Il caso concreto lo hanno dato questi mesi in cui un suggerimento sul fare o non fare gli ammortizzatori sociali proposti dal governo ha contribuito a impattare non solo sul conto economico ma anche sulla fiducia, sul mood e sul morale della gente.
Come cambierà il mondo del lavoro nel prossimo futuro?
Bandirei la parola cambiamento: quello che stiamo vivendo è imprevedibile. Si parla di cambiamento quando si è in una situazione statica e prevedibile che improvvisamente evolve. È tutto talmente fluido: è come se avessimo passato una barriera del suono da cui non torneremo più indietro.
Parlerei piuttosto di disciplina, di focus e di gestione del tempo, che ognuno di noi dovrebbe iniziare a esercitare e che dovremmo insegnare ai più piccoli, ai figli.
Quali sono le competenze per i manager del futuro
In un contesto come quello che stiamo vivendo di grande incertezza – e che non sarà diverso anche quando avremo il vaccino – ripeto: la centratura della persona è fondamentale. Autoconsapevolezza, disciplina, queste sono le doti e le competenze che dovremo esercitare. Più la gestione del tempo, conseguenza diretta delle prime due. I manager devono avere contezza di cosa vogliono e cosa no, devono conoscere i propri limiti, prospettive e tolleranze, essere in grado di avere disciplina nella gestione del tempo. Sono queste le competenze soft che ci serviranno nel futuro.
Quale ruolo il digitale ricoprirà negli sviluppi aziendali futuri?
Senza il digitale non ci staremmo parlando in questo momento e il mondo si sarebbe bloccato. Il digitale per me è accoppiato alla parola sostenibilità, e ha una valenza costruttiva se abbinata all’economia del riciclo, agli SDG 2030, se si declina in tecnologia intelligente, utile per vivere gli uffici e le città in modo sostenibile.
Il digitale può essere però anche una grande trappola: può essere ciò che ti spinge a fare orari assurdi davanti al pc perché ti senti controllato. Insomma, siamo tutti degli apprendisti in questo momento sul digitale e non dobbiamo dare mai nulla per scontato.