Come ha vissuto la pandemia in qualità di HR Director?
L’inizio della pandemia credo abbia colto tutti alla sprovvista, nonostante le avvisaglie. Ricordo un sabato di febbraio, era sera, e Regione Lombardia comunica che chiude le frontiere. Io con la famiglia e alcuni amici ero in montagna, abbiamo impacchettato tutto e siamo tornati a casa. Non tutti nel gruppo hanno agito così, ma mi aveva colto una specie di ansia da presidio: “Se sono in ufficio comprendo meglio cosa sta accadendo”, mi dicevo.
Le multinazionali, e le realtà più strutturate, hanno il vantaggio, quando succedono eventi di questa natura, di avere pronta una procedura. Noi abbiamo istituito da subito un Comitato di Crisi e abbiamo attivato, per tutti i colleghi, il lavoro da casa, ancora prima delle decisioni del Governo, per preservare la salute delle nostre persone, sia quelle di staff che sul field, e delle loro famiglie.
Come hanno reagito le persone?
Hanno lavorato, e tanto. Quello di cui abbiamo dovuto occuparci e preoccuparci è stata la quantità di lavoro che svolgevano. Si è parlato di smartworking, ma non c’è nulla di smart in quello che abbiamo fatto. Le persone accendevano il pc e chissà quando lo spegnevano, perlopiù per ansia. In termini di produttività il sistema ne ha beneficiato – anche se non è bello da dire – perché le persone non si sono autoregolate, e tante aziende non le hanno supportate da subito nel capire come autogestirsi.
Essere la filiale di una multinazionale ci ha un po’ penalizzati, invece, in termini di coordinamento internazionale: l’Italia è stata la prima a subire l’ondata del Covid-19, ma solo quando l’ondata ha interessato anche le altre sedi, il nostro Headquarter ha davvero capito la portata di ciò che stava accadendo.
Quali iniziative avete avviato per i colleghi?
Riempire il tempo dei colleghi di field non è stato facile, ma è stato molto bello: abbiamo fatto di un problema un’opportunità e abbiamo avviato una “Remote Academy” per lavorare sugli aspetti scientifici, con tanto di esame finale, non in ottica valutativa, ma per far emergere i gap da colmare.
Al contempo abbiamo lavorato anche sul fronte soft, realizzando diversi percorsi formativi, ad esempio sulla mindfulness, sulla gestione del mondo VUCA e sulla gestione dello stress, con l’obiettivo di lavorare su competenze utili sia per il presente che per il futuro.
A questi percorsi, abbiamo affiancato un assessment, offerto a tutti e “restituito” con un’ora di coaching, in ottica di sviluppo individuale, e completato da un appuntamento a metà anno per la costruzione della scheda di sviluppo, dove abbiamo fatto confluire tutto quello che è emerso in questo percorso.
Abbiamo messo in campo uno sforzo di ore immenso con una grandissima adesione da parte delle persone.
Quali pensieri e preoccupazioni hanno condiviso le persone con la funzione HR?
Inizialmente abbiamo provato tutti smarrimento. Per qualcuno è stato più complicato chiudersi in casa con la famiglia, i figli, i parenti anziani da accudire. Poiché i nostri farmaci sono destinati a pazienti oncologici non abbiamo avuto flessioni significative dal punto di vista del business, e questo ha contribuito a tenere emotivamente. Non abbiamo utilizzato alcuno strumento istituzionale, di cassa integrazione e similari, perché non era giustificato e non sarebbe stato corretto.
La seconda ondata è stata più estesa temporalmente, ma più a macchia di leopardo: tutto il personale di sede è a casa così come il personale di field, ma con una capacità acquisita di gestire meglio questa situazione, coltivando e continuando l’interlocuzione con i Clinici di riferimento, alcuni dei quali fortemente stressati dalla situazione. Abbiamo anche dovuto progettare ed erogare una formazione specifica su come “non farsi coinvolgere dal burnout dei medici”, perché molti nostri colleghi hanno relazioni personali sviluppate negli anni e si sono trovati ad ascoltare gli sfoghi dei medici, con un forte coinvolgimento emotivo.
Credo che comunque – visto il perdurare della situazione – cominceremo ad interrogarci su modelli che ci traghettino in questo cosiddetto “New Normal”.
Come è cambiato il lavoro della tua funzione HR? E il tuo lavoro?
La mia funzione è numericamente molto snella, perché siamo una realtà medio-piccola, composta da 140 dipendenti. Io mi considero molto fortunata: ho un team di persone eccezionali, “Le Fonti Awards” ci ha premiato anche quest’anno, come HR team, e sono quasi più orgogliosa del premio di quest’anno che non di quello dell’anno scorso, in cui hanno premiato me come Best HR Director del Pharma, proprio per quello che abbiamo vissuto nel 2020.
Il mio lavoro non è cambiato nella sostanza. Forse il cambiamento più significativo per una “giurassica tecnologica” – come io mi definisco – è stata la digitalizzazione. Per il resto sia io che il il mio team abbiamo lavorato in continuità: ho uno stile di “caring” e quello che abbiamo fatto fino ad oggi, lo avremmo fatto comunque e con una modalità non così tanto diversa. Personalmente io patisco il fatto di non vedere fisicamente i colleghi e tutti i collaboratori, perché mi piace molto stare insieme a loro. Lo schermo è purtroppo un debole palliativo.
Come è cambiato il vostro modo di lavorare? E come ancora cambierà?
Abbiamo contingentato e scaglionato gli ingressi nel rispetto dei protocolli, ma non direi comunque che abbiamo cambiato il nostro modo di lavorare: facevamo smartworking, anche prima della pandemia, un paio di giorni a settimana, e quindi era già parte del nostro modo di lavorare.
Come ancora cambierà, invece, è una bella domanda, e magari avessi una risposta! Parto però con un augurio per tutti noi: la pandemia è qualcosa di davvero terribile, ma confido che come comunità avremo l’intelligenza di non perdere ciò che di positivo c’è stato. Non credo al concetto di una “nuova normalità”, preferisco pensare ad un’evoluzione e mi auguro che il controllo fisico in ufficio da parte dei responsabili verso i propri collaboratori – che non è altro che un alibi – venga finalmente spazzato via. Per ottenere questo risultato, è necessario lavorare tanto sul Middle Management affinché comprenda che è fattibile portare avanti dei processi produttivi anche non avendo nella stanza di fianco il proprio collaboratore. Dobbiamo ispirarci al mondo delle vendite: nessun direttore vendite si è mai sognato di dire “li voglio tutti qui”. Bisogna imparare a lasciare le persone libere di lavorare come meglio credono, perché questo non inficia la produttività, anzi.
Come sarà il mondo del lavoro nel futuro?
Mi piacerebbe che il mondo del lavoro di domani fosse un mondo più a misura di persona oltre che di professionista, e secondo me è fattibile. Non penso però che la soluzione sia cinque giorni su cinque in smartworking, perché credo nell’utilità dei momenti di aggregazione: i commenti alla macchinetta del caffè, che abbiamo pietosamente tentato di recuperare inventandoci le pause caffè con il video, sono un tassello importante del lavoro, perché sono occasioni di scambio di informazioni tanto informali quanto essenziali. Inoltre, si pone un tema di senso di appartenenza: ad esempio noi abbiamo assunto tanto, ma questi nuovi colleghi non ci hanno mai visto davvero. Si supplisce digitalmente, ma non può essere così per sempre.
Quali saranno le competenze dei manager utili per il futuro dei business?
Il manager fa un mestiere difficile. A volte poi non diventa manager chi ne ha le capacità, ma si segue spesso la logica dello “specialismo tecnico”, e ci si trova ancora più in difficoltà. La capacità di gestire le proprie persone pur non vedendole è la competenza che va forse messa in cima alla lista: i corsi sulla leadership a distanza non sono una novità, pensiamo ancora una volta al mondo delle vendite. Oggi più che mai dovremmo imparare, o dovremmo migliorare, nella capacità di gestire da remoto e di creare senso di appartenenza.
Come il digital trasformerà il business e i nostri modi di lavorare?
Il digitale è stato e sarà fondamentale: senza il digitale tutta la filiera produttiva e industriale sarebbe crollata, e già così l’economia ha retto poco e male. In questi mesi abbiamo tutti sviluppato una serie di modalità digitali attraverso cui gestiamo alcuni step di processo che prima erano fisici, come ad esempio far firmare la lettera di assunzione a un candidato oppure tutti i processi transazionali relativi alle gestioni delle fatture, ai flussi operativi, al mondo paghe e contributi, etc. Tutto ciò che si è digitalizzato non va toccato, anzi piuttosto va fatta una riflessione su quali altri processi potrebbero essere gestiti in modalità digitale. L’Italia non ha mai brillato nella spinta alla digitalizzazione, per cui, a maggior ragione, preserverei questo patrimonio.
Ci sono, invece, alcuni comportamenti che abbiamo adottato con il digitale e che non vedo l’ora di abbandonare, come i colloqui in video call con i candidati, che non permettono di cogliere il non verbale, lo standing, le domande che sorgono “out of the blue”, ad esempio visitando i nostri uffici e guardandosi intorno.
Infine, non posso credere che nel futuro l’unico modo che avremo di dialogare con i Clinici sia solo digitale, così come non sono convinta che il remote working cancellerà gli uffici: semplicemente c’era un’inefficienza nell’uso degli spazi che la pandemia ha evidenziato.
Queste forzature e letture appiattiscono, e non è questo il valore che questa tragedia ci deve trasmettere.