Come hai vissuto il periodo della pandemia dal punto di vista professionale?
L’ho vissuto paradossalmente abbastanza a mio agio, probabilmente perché mi sono sentito più adeguato nel ruolo rispetto al passato. Nasco, infatti, come consulente di Change Management e porto questa esperienza anche nel mio ruolo di oggi: ho quindi affrontato la situazione come una sfida, perché ho potuto introdurre nel ruolo una serie di strumenti e di modi di essere che forse sono proprio tutto ciò che oggi serve.
Il mio lavoro non è più finalmente dedicato soprattutto a codici e procedure, a chi fa che cosa, alle regole… credo che tutto questo abbia oggi veramente una bassissima valenza perché è molto difficile pensare di normare la quotidianità, figuriamoci se possiamo pensare di codificare i comportamenti.
Quali azioni avete intrapreso in azienda?
L’unica cosa che in questa occasione potevamo fare era dimostrare un’empatia umana aziendale, nel senso cioè di riuscire a tenere compatta l’azienda in un momento di grande dispersione e disorientamento. Ed è in questo frangente che è tornato ad avere un senso il chiedere “come va?” alle persone, e forse per la prima volta abbiamo avuto una risposta di senso e vera.
Per comprendere, in ogni caso, come le persone hanno vissuto e si sono sentite abbiamo fatto una survey. Di solito le survey sono un esercizio un po’ stilistico e formale, in questo caso, invece, abbiamo avuto concretezza, senso e significato, e il riscontro che abbiamo ottenuto ci ha colpito al punto tale che abbiamo poi ripetuto l’esperienza più volte nel corso del 2020, rendendo anche la classica survey di clima un sistema più colloquiale, affinché le persone potessero condividere la propria quotidianità ed esprimere il più possibile le proprie preoccupazioni, le proprie speranze e aspirazioni per il futuro. Abbiamo avuto tantissimi contributi e talmente autentici che quest’anno abbiamo disegnato il nostro piano sulla scorta delle proposte dei nostri collaboratori.
Come è cambiato il tuo ruolo e quello dei colleghi della funzione?
Ci siamo fatti recettori di feedback veri, quelli che ci portano a organizzare poi iniziative che sono ciò di cui le persone hanno davvero bisogno. Grande concretezza e tanto ascolto, insomma.
Tutto quello che è successo ci ha messo di fronte a un cambiamento epocale e quello che ora dovremmo fare come HR è di creare il contesto – un nuovo contesto – nel quale il principio della condivisione sia un mantra.
Quali sono le iniziative che avete intrapreso per i dipendenti?
Siamo una realtà manifatturiera con una lunga storia, di ben 155 anni, un po’ periferici e con un fare nobile, che ci rende forse un po’ chiusi su noi stessi. Abbiamo quindi bisogno di recuperare terreno e introdurre concetti quali il digitale e attuare un cambiamento aziendale – che non pensavamo di avviare in modo così accelerato: quello che sta accadendo ha però dato coraggio a tutti quanti e la consapevolezza che non è più possibile posticipare per il timore di sbagliare. Uno dei progetti che abbiamo accelerato – e che per noi è stato rivoluzionario – è stata la creazione di un portale per la comunicazione interna, così da dare alle persone l’opportunità di rimanere aggiornate e, al contempo, fare cultura anche sul digitale: abbiamo per esempio inserito nozioni su questioni molto semplici, come comprare online. E lo abbiamo fatto perché vogliamo mettere tutti, blue e white collar, nella condizione di avere un corredo di informazioni e strumenti che arricchiscano il bagaglio di conoscenze quotidiane, al di là del lavoro: stiamo cercando di ridurre un gap, anche tra generazioni, affinché ci sia un punto di incontro. Non nego che c’è qualcuno che fa resistenza, qualcuno che scappa, qualcuno molto timoroso… ma è il nostro modo di avvicinare le persone in azienda e di valorizzarle, di fare knowledge sharing e al contempo di lavorare sul digital che può aiutarle a superare le remore iniziali. Tutto questo sono certo che renderà l’organizzazione più snella, agile, orizzontale.
Quale sarà il ruolo del digitale negli sviluppi aziendali futuri?
Anche un’azienda come la nostra deve evolvere. Noi aspiriamo a essere sempre più un’azienda “platform”, in grado di mettere a valore e in comune le competenze sia internamente sia esternamente: abbiamo expertise specifiche, dalla produzione, al disegno, al marketing, e credo che i brand possano avvalersi di queste nostre caratteristiche specifiche.
Credo inoltre che il nostro business model cambierà in funzione del digitale e non possiamo dunque sottrarci a questo processo di digitalizzazione delle competenze interne, perché tutti siano consapevoli che il digitale non toglie lavoro – penso ai miei operai che guardano con sospetto i giovani sviluppatori che digitalizzano le collezioni – ma dà opportunità. Stiamo ragionando sempre più per progettualità e non per task: l’anno scorso abbiamo avviato con i sistemi informativi la revisione dei gestionali e abbiamo coinvolto anche le figure di assistenti di reparto per prepararle al nuovo ruolo. È stata questa un’occasione per far capire loro che si deve lavorare insieme e non più per compartimenti stagni, ma per logica di progetto.
Quali sono le competenze che un manager deve possedere per affrontare il futuro?
Nel corso del 2020 abbiamo lavorato con i manager affinché si creasse e mantenesse un clima aziendale sereno e positivo, nonostante la situazione. Abbiamo poi condiviso con loro i progetti, spiegato dove vogliamo andare, incentivando il meccanismo a cascata verso i riporti, che faccia sì che tutti quanti, fino all’ultimo dei colleghi, sappia che cosa stiamo facendo, dando la percezione che ci sia sempre un’idea di fondo e che non stiamo navigando a vista.
Il manager deve essere un po’ come le app sul nostro smartphone: periodicamente si deve aggiornare, deve avere questa impostazione mentale per cui non si ferma, studia, impara, è curioso. In più deve comportarsi come un “diffusore di informazioni”, e non come un custode di esse. È un creatore di opportunità di conoscenza a tutti i livelli, in grado di procedere spedito a ritmo costante e veloce verso la meta prefissata.
Quale sarà il futuro della funzione HR? E del Direttore HR?
Abbiamo sicuramente l’opportunità di essere facilitatori del cambiamento e al contempo di lasciar andare alcuni pezzi di processo che sono più finanziari e amministrativi. Spero che ci avvicineremo sempre più al marketing, perché diventa sempre più importante l’ascolto del cliente sia interno che esterno e allenarsi a intercettare i nuovi bisogni.
C’è poi un tema tecnologico: come HR dobbiamo sporcarci le mani sul digitale, per poter dare un contributo anche ad aspetti di user experience, grazie alla sensibilità umanistica che per mestiere abbiamo sviluppato e coltiviamo, così che non siano sempre e solo in mano ai tecnici.
Avremo un ruolo in azienda sempre più da coach, a supporto dei manager affinché si contaminino e non siano – e si sentano – uomini soli al comando, ancorati alle proprie expertise e al ruolo, ma piuttosto evolvano e giochino quel ruolo che serve davvero alle aziende. Ammetto che credo che qualcuno rimarrà indietro, perché vedo e sento colleghi che fanno fatica a capire dove si trovano e cosa sta succedendo intorno a loro.
Infine, non mi piace che si dica che saremo business partner ma piuttosto che avremo un ruolo da business leader del cambiamento, in grado di portare quella componente umanistica su tutti i tavoli, anche di business, mettendosi in gioco con dinamismo e con grande voglia di sapere cosa le persone fanno e di cosa hanno bisogno.
Come sta cambiando il mondo del lavoro? E come cambierà?
Sono un po’ preoccupato – anche come padre di tre figli – del fatto che la scuola, il luogo per eccellenza dove i ragazzi dovrebbero iniziare a costruire le proprie competenze, sia sideralmente lontana da quelle che sono le esigenze aziendali.
Pensiamo anche solo al fatto che nessuno si sia preoccupato fino a ora di dare ai ragazzi gli strumenti per gestire questo momento e come ancora oggi si faccia perdere loro troppo tempo su nozionismi piuttosto che spiegare loro il digitale. Sono negativo perché poi alla fine a noi, in azienda, arriveranno solo pochi privilegiati che in qualche modo hanno avuto la possibilità di seguire un certo percorso, ma non è detto che siano i veri talenti.
Vedo però anche un’opportunità per le aziende, che possono prendersi carico un pochettino di questa mancanza delle istituzioni pubbliche: ci dovrebbe essere una chiamata alle armi per colmare questo gap, che altrimenti si tradurrà in un gap di competitività a livello Paese. Credo che serva una nuova visione olivettiana moderna, dove l’azienda si fa un po’ carico anche del privato e quindi del futuro del lavoratore, e crea una visione sul lavoratore e sul contesto nel quale è inserito. Basta forse solo un po’ di creatività.