Come hai vissuto la pandemia in qualità di HR Director?
Dal punto di vista personale è stato un po’ come per tutti un piccolo shock. Personalmente l’ho vissuto con un senso di costrizione, è stato un “non puoi scegliere”. Difatti in MIP avevamo già avviato un progetto di smartworking e stavamo lavorando su una differente cultura, con una responsabilizzazione sugli obiettivi che l’introduzione dello smartworking necessariamente implica.
L’homeworking forzato – che di smart ha poco – ci ha lasciato invece il senso di costrizione e temevo potesse influire negativamente sulla valutazione dello smartworking da parte di quelli già reticenti nell’approcciarsi a questa nuova modalità di lavoro.
Questa sensazione è però comunque durata poco, perché subito ho cominciato a lavorare su due diversi vettori: quello personale, pensando “Smettiamola di fustigarci e di rendere la situazione più difficile di quella che è. Di fatto, non è colpa nostra”, e aggiungendo “Dobbiamo trovare il modo di organizzarci, ridurre gli impatti negativi della situazione e trarne piuttosto qualche vantaggio o opportunità”.
Ed è stato lo stesso approccio che ho tenuto in azienda: ne è emerso un senso di responsabilità per garantire la continuità del business e per salvaguardare il lavoro delle persone.
Abbiamo pensato a iniziative che impedissero di portare avanti azioni vieppiù scioccanti dal punto di vista professionale per le persone. Abbiamo pertanto analizzato come la pandemia avesse modificato i carichi di lavoro e le priorità di diverse funzioni ed abbiamo coinvolto alcuni dipendenti – circa il 10% del totale – con competenze più trasversali, muovendoli orizzontalmente da unità più impattate da Covid e quindi più “scariche” a nuovi ambiti di sviluppo individuati proprio per far fronte all’emergenza e salvaguardare il nostro business.
Potevamo tranquillamente fare ricorso agli ammortizzatori sociali, invece abbiamo preferito adottare un altro modello: abbiamo creato delle “task force” in cui le persone di altre unità hanno svolto attività mai fatte prima grazie ad una formazione veloce e online, ed abbiamo organizzato nuove iniziative di Scuola– come i “Talk with CEO” o il progetto “Keep on Learning” – per alimentare il network, con un grande sforzo da parte delle nostre business unit del Sales e della Comunicazione.
Questo ci ha permesso di salvaguardare l’occupazione ed il reddito delle nostre persone, ed è qualcosa di cui sono particolarmente contento.
Quali iniziative avete avviato per le persone?
Ho agito con l’ottica di stimolare le persone a continuare a sentirsi parte di un’azienda, con la finalità di coltivare il nostro senso di appartenenza e ridurre la spiacevole sensazione di isolamento. Ne sono anzitutto scaturite una serie di iniziative sulla formazione: training su come affrontare il remote working e corsi di lingua inglese online. Inoltre abbiamo attivato un corso di pilates settimanale per tutti i dipendenti e promosso, a cura di un nostro Team interno, una sorta di circolo culturale con proposte di film e libri su un argomento specifico e successivo momento di condivisione e confronto. Last but not least, una volta ogni 3 settimane abbiamo invitato i nostri dipendenti ad un Virtual Coffee con il nostro Dean, dando visibilità di ciò che stava accadendo all’interno della nostra organizzazione.
Naturalmente, con prudenza e responsabilità, abbiamo altresì operato una “spending review” su tutti i centri di costo, senza che questo abbia intaccato l’engagement delle persone per i motivi espressi poc’anzi.
Abbiamo poi organizzato dei momenti di scambio tra Unit per favorire le sinergie. Spero che le persone abbiano apprezzato il fatto che abbiamo provato ad anticipare le loro richieste ed esigenze di rimanere aggiornati, di sentirsi parte dell’azienda, di vivere con un po’ più di leggerezza – perché ne avevamo e abbiamo bisogno – e di stare connessi.
Con l’inizio della Fase 2 le persone mi hanno chiesto di rientrare in ufficio ogni tanto: psicologicamente andare in ufficio era una riconquista di alcuni e piccoli frammenti di normalità e quotidianità. E naturalmente ci siamo velocemente organizzati per consentirlo.
Come avete vissuto la fase di smartworking?
In generale, per le aziende il Covid-19 è stato una bomba, è stato come se buttassimo in acqua una persona per insegnarle a nuotare: ad un certo punto, pur di salvarsi, impara. Per noi non è stato così scioccante perché avevamo già avviato lo smartworking, dovevamo lavorare piuttosto sulla percezione del lavoro da casa: si tratta di una nuova modalità che prevede una responsabilizzazione verso gli obiettivi e su una piena padronanza delle tecnologie messe a disposizione. Su questo, in tutta franchezza, eravamo un po’ indietro.
In generale, la pandemia ha accelerato le tappe di una trasformazione culturale prevista su un paio d’anni, tanto che già oggi ci chiediamo: “What’s next?”.
Come è cambiato il tuo ruolo con questa pandemia?
Il ruolo è cambiato di pari passo con il succedersi dei DPCM, delle ordinanze, dei decreti. Ad oggi anche tutta quella materia ha delle implicazioni sul ridisegno degli spazi di lavoro, sulle modalità e gli orari di lavoro. La cosa che è cambiata per me è stato davvero il dover interpretare e calare nella nostra realtà tutte quelle che erano le disposizioni governative. E non vederle per il solo presente. Oggi siamo in grado di garantire alle persone la scelta di poter costruire la propria settimana lavorativa a seconda delle proprie esigenze: la flessibilità è il tema fondamentale per ridurre gli impatti su di noi. Dovremo adattare spazi e dotazioni tecnologiche alla necessità di fruire di una collaborazione ibrida, tra persone che lavorano a casa, in sede o in qualunque altro posto.
Il mio ruolo è cambiato perché ad oggi non si possono più sottovalutare e non ritenere prioritarie certe dinamiche, legate all’ingaggio, agli spazi di lavoro che vanno ripensati in maniera meno tradizionale, anche alle nuove generazioni, expert avanzati sull’uso delle nuove tecnologie, ma talvolta con meno capacità di lettura dei cambiamenti organizzativi. Bisogna creare il terreno fertile per lavorare in modo multidisciplinare, consapevoli del valore che possiamo portare.
Come è cambiata, invece, la funzione HR?
La bilancia comincia a pendere dalla parte delle soft skills: oggi un HR non può non annoverare tra i propri punti di forza l’intelligenza emotiva, la capacità di interpretare l’incertezza del mondo e di trovare o meglio ancora prevedere nuove soluzioni. La funzione HR deve sempre più essere un trait d’union tra i tavoli decisionali delle Direzioni che intendono indossare nuove lenti per leggere il presente e il futuro, e garantire la continuità ed il “stare al passo” delle aziende.
La trasformazione digitale ha un impatto, ma talvolta solo una parte dei dirigenti d’azienda ne è davvero convinta; come si fa a innovare senza avere a bordo persone consapevoli di come il cambiamento possa avvenire? L’HR deve accompagnare, abilitare, facilitare le persone verso uno spirito di adattamento a ciò che ci circonda.
Io ci credo davvero, soprattutto nel modo di improntare il rapporto con i miei colleghi di Staff Leadership, con l’obiettivo di crescere insieme, come gruppo di lavoro e come organizzazione in generale. Non vedo più l’HR come colui che cala le decisioni o che se ne fa portavoce in una modalità unilaterale, ma è la persona che conosce come gli altri la direzione desiderata dai vertici e si pone come enabler, facendo sì che tutti siano agenti di cambiamento, contribuendo a sviluppare la capacità di vivere i valori di un’organizzazione. Si pone davvero come partner, consulente interno, facilitatore, consapevole che le soft skills hanno una parte importante tanto quanto le hard skills. Una persona che avvicina.
Rimangono poi aperti i temi della lettura delle performance e delle modalità di selezione: oggi valutiamo le competenze hard, ma sulle persone giovani è importante capire anche la persona, approfondirne le competenze soft, come il suo spirito di adattamento, la capacità di pensare out of the box e di promuovere una cultura aziendale al passo con i tempi. Da recenti indagini portate avanti da accreditate società di consulenza, in particolare all’interno della generazione comunemente denominata “millenials”, troveremo persone che ambiscono nel trovare un “high purpose” sul luogo di lavoro. Riconoscersi in un’organizzazione che vuole partire dal “Perché” per le nuove generazioni è forse più importante di soldi e status, a cui siamo sempre stati abituati a pensare come principali leve di engagement.
La sfida è cercare di guardare oltre.
Quali sono le competenze che i manager del futuro dovranno possedere?
I manager hanno un compito fondamentale: portare tutti dalla stessa parte. Se l’organizzazione cambia lenti con cui leggere il mondo, se l’HR si sforza di cambiare e di essere al fianco dell’organizzazione e spinge per la condivisione delle strategie tra le persone, il newcomer che arriva in azienda da cosa può vedere che la cultura aziendale è davvero permeata di questi valori? Nel manager, colui o colei con cui lavora, quindi nei fatti e non nelle parole. Serve consapevolezza e una spinta dei manager nell’essere esempio da seguire e agenti di cambiamento, anche al di fuori del perimetro dei meri obiettivi personali e di team. Il manager deve avere in sé quel bagaglio di allineamento alla trasformazione culturale.
Come il digitale sta trasformando il business?
Il digitale ha già giocato un ruolo fondamentale, ci ha salvato e continuerà a essere la nostra realtà. A dire il vero non ho un pensiero così originale rispetto a quello che già avrete sentito sul ruolo del digitale, mi piacerebbe piuttosto soffermarmi su un prerequisito fondamentale del digitale, affinché le aziende possano vivere appieno questa trasformazione, con consapevolezza e responsabilità.
Uno spunto importante di riflessione deriva dal fatto che MIP ha da poco ottenuto la prestigiosa certificazione BCorp, che misura i benefici e gli impatti sociali ed ambientali prodotti nell’esercizio di impresa, oltre a condividere e porre in atto un continuo piano di miglioramento dell’organizzazione con tutti i propri stakeholders, interni ed esterni.
Nella definizione di un piano di evoluzione ed espansione del nostro business, abbiamo sentito il dovere di partire dalla ricerca del purpose, di una ragione d’essere che accompagni da un lato la massimizzazione dei profitti che ma abbia sempre a mente e a cuore la volontà di costruire un futuro migliore per le prossime generazioni.
Per noi alla School of Management questa responsabilità è sentita ancora maggiormente, perché il nostro lavoro consiste nell’insegnarlo, nel formare ed educare i futuri decision makers aziendali, che condurranno le imprese di domani, e non vogliamo mancare la sfida di instillare in loro determinate sensibilità in modo che possano sì capitalizzare le loro opportunità di carriera ma al contempo far evolvere le future organizzazioni verso un modello in cui profitto, equità e sostenibilità possano coesistere.
Anche per effetto dell’accelerazione impressa dal Covid, poche aziende quindi non vedranno il proprio business trasformato dal Digitale. A mio avviso a fare la differenza sarà un cambiamento culturale con adozione del purpose come paradigma aziendale di leadership. Questo consentirà ai manager di possedere le leve necessarie a gestire in modo più consapevole l’innovazione e l’emergenza, mettendo in campo più velocemente soluzioni. E qui si torna al manager del futuro che sarà più naturalmente portato a coinvolgere i propri collaboratori in conversazioni più aperte e profonde, che abbiano sempre a rifermento un higher-purpose condiviso.